“Siberia”: un grande melodramma italiano dimenticato

Editoriale

Agosto 30, 2024

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Come raccontare una storia d’amore folle e invulnerabile, usando il genio nostrano

Ambientare un dramma teatrale nella Russia di metà Ottocento, dove la sopravvivenza veniva decisa puramente dal fato, non dev’essere facile. Umberto Giordano, celebre compositore nostrano, decide di tentare l’azzardo. Pur di portare a compimento il suo progetto, coinvolge e si confronta col celebre librettista e commediografo Luigi Illica, per avere un’idea più chiara sul contesto che vuole descrivere e sulle dinamiche sceniche da intersecare nella fitta trama.

Ne uscirà un melodramma puro, suddiviso in tre atti, ufficialmente concluso nel 1903 e che riscuoterà un clamoroso successo. Un successo quasi dimenticato, a oggi.

Un melodramma costituito dalla fusione di nozioni tratte da più fonti letterarie, principalmente russe. Tra queste si possono citare “Memorie di una casa di morti” di Dostoevskij, “Resurrezione” di Tolstòj e alcuni estratti di “Orrori della Siberia” di Salgari, oltre che il reportage “Siberia” del diplomatico e storico statunitense George Frost Kennan.

Dal primo all’ultimo atto, la protagonista principale è la bella Stephana, residente nel palazzo sfarzoso del principe Alexis.

Arriva lì “grazie” a uno scambio di favori tra lo stesso principe e il malvagissimo Gleby che, utilizzando Stephana come “bene di scambio” da cedere al principe (avendola prima sedotta, poi mercificata), ottiene da quest’ultimo un sussidio permanente. Ma lei per il principe non prova nulla, se non diffidenza. Credendo fortemente nei sentimenti, si innamora del giovane luogotenente Vassili, che incontra segretamente in una zona lontana dalla residenza di Alexis. Vassili, inizialmente, non conosce la condizione di Stephana (resa succube del principe), scoprendo la verità soltanto durante il loro ultimo incontro e una volta scoperto il punto ove dimora la sua amata, decide di andare direttamente presso il lussuoso palazzo prima di partire per il richiamo militare.

Ma quello è il luogo dove regna Alexis e il principe, di certo, non vuol perdere il suo “trofeo” più ammirato. Ne segue un duello in cui il contendente uccide il principe e per tale reato Vassili viene arrestato e deportato nella gelida Siberia.

Ma l’amore non ha confini sentimentali e né, tantomeno, geografici. Anzi, l’amore salva. Vassili lo capisce quando, stremato dalla marcia verso i lavori forzati, ai confini delle lande siberiane rivede la sua amata. Proprio lì, tra abitanti del posto in procinto di accoglierli e il gelo mortale, Stephana corre verso il suo grande amore. Il quale, non volendo che lei assista alla sua sofferenza, cerca di dissuaderla dal seguirlo.

Inutilmente.

Stephana si lascia guidare dal desiderio di accudire il suo uomo, non da altro.

Il campo detentivo accoglierà entrambi.

Trascorrono diverse settimane, Gleby arriva al campo di prigionia, arrestato per uno degli innumerevoli crimini commessi. Qui riconosce istantaneamente Stephana, la sua prima “preda“, che insulta apertamente. Ma, in quel campo, c’è anche un giovane luogotenente assetato di vendetta: Vassili.

La rabbia di Vassili è tale che, per evitare un altro bagno, che viene placata, inaspettatamente, proprio da Stephana. Colei che, più di tutte, vorrebbe vedere Gleby umiliato. La ragione è semplicissima: i due amanti progettano di evadere, coadiuvati da un altro detenuto e, se Vassili uccidesse un uomo, il loro piano rischierebbe di saltare.

Piano che riesce a divenire realtà ma che, purtroppo, finirà in tragedia.

Gleby, desideroso di schiacciare i due rivali, venuto casualmente a conoscenza del piano d’evasione, spiffera tutto alle guardie da campo russe. Alcuni ufficiali partono, immediatamente, alla ricerca dei fuggitivi a suon di fucilate. Spari fatali, che colpiranno la povera e sfortunata Stephana. Proprio lei che, amante dei sentimenti e della vita, non desiderava altro che un amore eterno come sua unica ragione di vita, incarnato in Vassili.

Ragione di vita che la raccoglierà ancora intrisa di sangue. Disperato, distrutto, annullato. Perennemente addolorato, anche dopo la “marcia di ritorno” verso la prigionia.

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