Su poesia e spiritualità

Editoriale

Agosto 5, 2024

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La poesia è vanità o c’è molto di più?

C’è scritto nell’Ecclesiaste che tutto è vanità, nel senso che di fronte alla morte le cose materiali di questa vita sono vane e che in un’ottica ultraterrena non contano gloria, potere, ricchezze, lavoro per arricchirsi. Allora anche la poesia è vanità? Questo lo può sapere solo l’autore dei versi. Non si può rispondere genericamente e tout court.  Dipende se per un poeta scrivere sia come pregare, anzi sia pregare (la poesia può diventare preghiera e viceversa…pregare può anche essere poetico e la Bibbia è anche grande letteratura). Dipende se il vero intento sia il consenso culturale o se la poesia risponda esclusivamente a esigenze interiori elevate, cioè puramente speculative e spirituali. In un poeta possono coesistere entrambi i fattori.  Di solito nello scrivere versi c’è innegabilmente una componente narcisistica e spesso anche una nevrotica o psicotica. Dipende molto se queste componenti prevalgano o meno sulla poesia.

La vera poesia è elevazione dello spirito, innalzamento dalle miserie, dalle magagne, dal consumismo, anche quando il poeta in questione è materialista e nichilista. C’è sempre una traccia spirituale nella vera poesia, anche negli autori osceni o negli autori più realisti. Per fare poesia ci vuole un atteggiamento spirituale. Tutto nasce da lì, anche se poi la poesia prende altre direzioni, del tutto impreviste. La poesia in primis è spirituale, perché non può dare benessere economico, a meno che non ci sia uno snaturamento banalizzante e commerciale.  La poesia, anche la poesia peggiore, nasce dal raccoglimento interiore. Se c’è qualcosa di eterno nell’animo umano, si intravede nella poesia e da essa fa capolino. Se l’essere esiste, si manifesta, si rivela anche con la poesia. Heidegger ad esempio ha studiato il rapporto tra poesia e ontologia. La poesia in questo senso è apertura della radura. La poesia può essere disvelamento e smascheramento, insomma volgarmente mettere a nudo la propria interiorità. Può essere epifania o teofania, in ogni caso frutto di meditazione sull’esistenza e quindi una rivelazione interiore da cui si intravede l’essere, vero o presunto. Poco importa sapere se un poeta è alcolizzato, autodistruttivo,  drogato, orgiastico, nullafacente, dissoluto. Le sue parole possono e non  devono (non c’è nessun obbligo pedagogico e/o didascalico nella poesia) essere edificanti, comunque illuminanti per noi e non la sua persona.

Ci sono poeti maledetti e poeti suicidi oppure omicidi, che secondo la morale cristiana non si sono salvati. Non devono essere presi di esempio per le loro vite.   Si potrebbe discutere per ore se la poesia possa corrompere gli animi o educarli al bene. Personalmente ritengo che non sia dovere della poesia ma di altre discipline insegnare a vivere. In ogni caso si deve prendere di esempio la poesia degli autori più dissoluti.

Il lascito dei poeti più deliranti e maledetti è la poesia, la parte più profonda e più pura di loro stessi. Poco importa sapere le impurità della loro vita. Ciò che deve interessarci è soprattutto la poesia e non il poeta. La vita del poeta deve interessarci solo per comprendere meglio la sua poesia, senza fare troppi pettegolezzi e senza curiosità morbosa. Tutto ciò è semplice a dirsi ma molto difficile a farsi. Talvolta certa critica biografica scade nel chiacchiericcio improduttivo e malizioso sull’orientamento sessuale, sui contesti familiari, sulle magagne dei poeti. Tutto questo si basa spesso su un moralismo antiquato e retrogrado di quart’ordine.  E tutto questo per chi e per cosa? Soprattutto per la vanità dei critici biografici. Si passa di vanità in vanità. E qui si chiude il cerchio.

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