Quando Martìn Leonardo Castrogiovanni entra nella Sala Sordi della Multimedia Valley le note di Satisfaction a malapena reggono l’onda d’urto degli applausi. I giffoner della sezione Elements+10 sono in seicento, indossano magliette bianche e un’espressione felice. Per il già campione della nazionale italiana di rugby, oggi impegnato in televisione, nel sociale e con l’accademia dedicata ai più piccoli e in particolare allo sport con la palla ovale, è come scendere in campo in uno stadio pieno di supporters della squadra di casa. Ci sono ragazzini che urlano il suo nome, altri che alzano il pollice in segno di vittoria, altri ancora che battono con forza i piedi in terra come entusiasti orchestrali. “Adoro l’energia dei giovani e sono felicissimo di essere a Giffoni” esordisce l’atleta nato in Argentina nel 1981 da una famiglia di origini siciliane. “Il nostro futuro dipenda da voi. Il nostro futuro siete voi” tuona rivolgendosi alla platea. “Coltivate i vostri sogni con passione, impegno e sacricio senza farvi mai frenare dalla paura di fallire. Quello che conta davvero è mettercela tutta. Questo è il vero successo”.
Castrogiovanni, un metro e novanta con spalle larghe e cuore grande, ha lasciato il Sudamerica subito dopo aver compiuto la maggiore età. Lo ha fatto per andare incontro al suo destino. Per scrivere la sua storia. “Non è stato facile” ammette facendo un parallelo con il tema dell’edizione 54 del Festival ideato e fondato da Claudio Gubitosi. “La distanza più grande, reale e irreale allo stesso tempo che ho percepito da allora nella mia vita sono stati la famiglia e gli amici. Reale perché ne ho avvertito inevitabilmente la mancanza. Irreale perché con il passare del tempo ho capito di averli sempre portati dentro di me”. Le pagine del romanzo pubblico e privato di Castrogiovanni sono rilegate con il filo di una passione autentica per l’esistenza e sfogliate – una ad una con grande attenzione – dai giffoner. “Mia madre non voleva che giovassi a rugby. Preferiva il basket perché meno duro. Purtroppo per lei mi squalificarono e così tanti saluti ai canestri”. La sua carriera da rugbista parte subito forte. Viene tesserato dal Leicester, uno dei club più prestigiosi d’Inghilterra. Qui vince la premier e viene nominato miglior giocatore del campionato. Poi, per quattordici lunghi anni, veste la maglia dell’Italia. “Il rugby mi ha insegnato a vivere. È uno sport che educa a prenderti le tue responsabilità. A rialzarti sempre, a rispettare gli altri. Ho sempre creduto nella sua filosofia e nei suoi valori”. Castrogiovanni è subissato dalle domande dei giurati. L’incontro è ad alta intensità di emozioni e densità di contenuti. “Se mi sento un campione? Lo sono stato sempre insieme ai miei compagni. Mai da solo”. In questo senso aggiunge che “ci sono due cose davvero fondamentali nella vita”. Queste due cose sono il Terzo Tempo e lo spogliatoio. “Il rispetto dell’avversario, che non è un nemico, e il gioco di squadra fondato sull’amicizia, vengono al primo posto” sostiene l’atleta argentino. “Certo, pùò capitare e sicuramente capiterà a tutti di litigare nella propria vita ma la rabbia non va mai portata a casa. Bisogna sempre parlare e chiarirsi” conclude “per trasformare quella rabbia in energia. Una potentissima, sana e positiva energia”.
Il campione della nazionale italiana di rugby è stato poi ospite di Giffoni Sport. Ha vissuto lo disciplina della palla ovale da diverse prospettive, in molti paesi. Va subito nella mischia, dice schietto: «Il professionismo ci separa dalle altre latitudini. Non puoi chiedere ad un giocatore di comportarsi da professionista, se non lo paghi come tale. L’Inghilterra è stata una delle cose più belle che ho visto, ho vissuto dove è stato inventato il rugby. Quando sono andato via da lì (primo pilone della storia del rugby inglese a vincere il premio come miglior giocatore dell’anno, nda) sono andato in Francia perché non avrei potuto giocare in altre squadre, dopo l’esperienza, quattro volte Campione d’Inghilterra con i Leicester Tigers».
Il rugby è il fair-play e il terzo tempo per eccellenza. Poi Castrogiovanni è approdato nei salotti televisivi. Nota lo stesso fair-play? «Non mi disturba aver frequentato un mondo che non era il mio. Mi dà più fastidio aver lasciato il rugby che non aveva più i valori miei. Adesso mi manca lo spogliatoio più di ogni altra cosa. Facevo basket e nuoto ma quando andavo a scuola, vedevo su un campo un gruppo di ragazzi unito. Mia mamma non voleva. Allora a 17 anni ho spinto un arbitro da basket e mi hanno squalificato a vita. Così ho detto a mia mamma che non potevo più giocare a pallacanestro ma solo a rugby». Il bagagliaio però lo ha riempito. «Mi porto dietro la capacità di essere vicino a qualcuno per sostenerlo. Nel rugby si corre davanti e si passa indietro. Non vedi i compagni, perché sono dietro di te ma sai che ci sono e rappresentano il tuo sostegno». I ricordi, i brividi: «Non avevo detto a nessuno quale sarebbe stata l’ultima partita in Nazionale. Ricordo che in occasione dell’inno ho portato i capelli sul volto per coprire gli occhi e ho pianto molto». Infine l’idea dell’Academy. «È nata senza pensarci, ho cominciato pensando che tutti noi sportivi dobbiamo restituire allo sport quello che ci ha dato».
Pure la vita gli ha restituito qualcosa. Mondiali del 2015, gli viene diagnosticato neurinoma alla schiena. «In quel momento non ho pensato che il mio corpo mi stesse dicendo di fermarmi. Ho obbligato i dottori a farmi fare la risonanza perché sentivo di arrivare secondo su tutti i palloni. Il referto diceva che sarei morto in sei mesi. C’è stato però poco tempo per riflettere. Nel giorno del mio compleanno c’erano tantissimi compagni. Ho avuto sempre sostegno incondizionato».
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