Su Netflix l’ennesima trasposizione cinematografica del capolavoro di Patricia Highsmith
Patricia Highsmith il romanzo lo scrive nel 1955. Parliamo di “Il Talento di Mr. Ripley”, il primo del ciclo di Tom Ripley e il quarto per l’autrice di noir americana, morta nel 1995.
Da allora, ben quattro registi si sono cimentati nel portare sugli schermi il personaggio partorito dalla Highsmith.
Tutti registi di calibro, a partire dal francese René Clément, con “Delitto in pieno sole” (1960) e Alain Delon come protagonista. Del 1999 è la versione dell’inglese Antony Minghella, con uno stuolo di star: Matt Damon nel ruolo di Tom Ripley, affiancato da Gwyneth Paltrow, Jude Law, Cate Blanchett, Philip Seymour Hoffman.
Liliana Cavani, nel 2002, mette in scena il terzo libro della serie (“Ripley’s Game”) realizzando “Il gioco di Ripley”, dove i panni di Tom Ripley sono vestiti da John Malkovich. Stesso libro che ispirerà Wim Wenders quando girerà “L’amico americano”, con Dennis Hopper, nel 1977, film nel quale più della trama conta il malessere che i fatti raccontati suscitano e la complessità dei personaggi e dei rapporti che tra essi intercorrono.
Quella complessità dei personaggi che è soprattutto la complessità del protagonista che attraversa le pagine della Highsmith e che dopo Delon, Hopper, Damon e John Malkovich è stato ora incarnato, nella serie di cui parleremo, dalla fisicità ossuta e spigolosa dell’attore irlandese Andrew Scott.
E iniziamo da lui. Chi è Tom Ripley? È un “garbato, gradevole e assolutamente amorale artista della truffa”. Così lo definisce la stessa Highsmith. Viene assunto da un ricco imprenditore newyorkese, sul falso presupposto che sia amico del figlio Dickie, affinché si rechi in Italia, dove si trova a fare la bella vita, e lo convinca a tornare in patria. Ripley non ci pensa due volte, molla le piccole truffe che quotidianamente compiva nella Grande Mela, per interpretare la commedia che reciterà per il resto della sua esistenza, quella in cui è un giovane artista americano appassionato di arte, in viaggio di studio per l’Italia. Non prima, però, di aver ucciso Dickie di cui nel frattempo aveva conquistato la fiducia e prenderne l’identità. All’aggettivo “amorale”, la Highsmith, correttamente, affianca quello di “gradevole”, perché, in effetti, non lo si può non esserlo se si vogliono raggiungere i propri obiettivi nell’arte della manipolazione.
E l’attore Andrew Scott ne enfatizza gli sforzi ricorrendo alla tecnica della “sottrazione”: toni pacati, espressioni minime, movimenti ridotti, quasi a voler rappresentare un personaggio, la cui “invisibilità”, diventerà, nel corso della narrazione, un elemento fondamentale di sopravvivenza. Come “minimal” potrebbe apparire la regia di Steve Zillian. Premio Oscar per la sceneggiatura di “Schindler’s List”, sceneggiatore anche di Scorsese (Gangs of New York e The Irishman) il settantenne cineasta americano sceglie un bianco e nero di rara nitidezza per descrivere le vicende che si raccontano e per fotografare alcuni dei luoghi più belli del mondo. Siamo in Italia, il gioco è facile: Atrani, Napoli, Palermo, Roma, Sanremo, Venezia; luoghi fisici, trasfigurati nei tormenti, nelle paure, nelle ansie dei personaggi che li attraversano: mari agitati, acque vorticose, tramonti stemperati, albe livide, fanno da intermezzo alle truci azioni del protagonista.
Ma c’è di più. C’è un amore per le “cose” italiane (che trasudava anche dal film di Minghella) che nelle otto puntate della serie emerge, non senza una punta di orgoglio da parte nostra. Lo si percepisce, con chiarezza, ad esempio, nella approfondita conoscenza della società italiana degli inizi degli anni ’60 quando, in un locale napoletano, ascoltiamo cantare “Il cielo in una stanza” da una giovanissima Mina. O nella scelta di attori italiani come Margherita Buy e uno strepitoso Maurizio Lombardi nei panni di personaggi comprimari, che incarnano a perfezione donne e uomini di un Paese, da poco uscito dalla tragedia della guerra e proiettato verso un futuro di stabilità e maggior benessere. Lo raccontano le maschere espressive degli innumerevoli concierge che accolgono Ripley nel suo lungoe convulso peregrinare da albergo in albergo.
Lo testimonia, soprattutto, quell’insopprimibile amore per il “bello”, di cui, anche se assassino e amorale, Tom Ripley non riesce a sottrarsi, tanto da rischiare ogni giorno la cattura pur di ammirare i capolavori del Caravaggio (del quale, in certo tal modo, crede di condividerne la vita agitata) sparsi per la penisola, invece di riparare in luoghi più sicuri, ma, certamente meno affascinanti.
È l’Italia, baby!
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