Un fresco manifesto femminista, senza rabbia femminista
Quando si parla di femminismo, c’è spesso una lamentela comune: c’è troppa rabbia.
C’è troppa rabbia nelle femministe, nelle loro frasi, nel modo in cui si esprimono a riguardo.
Quella delle femministe è la rabbia dell’oppresso che grida per farsi ascoltare e per abbattere i muri delle disuguaglianze.
Ogni grande movimento sociale e politico affonda le proprie radici nella rabbia, si nutre di essa, usandola come carburante. Il problema principale è che questo sentimento, per quanto sia naturale e inevitabile da parte di quella che si ritiene “la parte lesa” nel complesso meccanismo della società, può rivelarsi spesso deleterio per veicolare efficacemente i principi della causa.
Nessuno ama stare a sentire una persona arrabbiata, che sputa veleno sugli altri. Soprattutto non lo amano quelle persone che, senza volerlo, appartengono alla categoria che viene criticata.
Così i ricchi non vogliono ascoltare le rimostranze dei poveri, i bianchi sbuffano per le proteste dei neri, gli uomini sfuggono le argomentazioni delle donne sulla disparità di genere.
Dopotutto, si nasce maschi o femmine per caso, non è una scelta, e quando il maschio si sente messo al muro dalla rabbia delle donne, come se il suo genere fosse una sua colpa, si chiude su sé stesso e pensa solo a difendersi da quelle che reputa accuse ingiustificate.
Quando c’è rabbia, la comunicazione viene menomata e il messaggio si perde sia per chi parla, sia per chi ascolta.
Chimamanda Ngozi Adichie, autrice di uno splendido manifesto femminista pubblicato in Italia dalla Einaudi nel 2021 “Dovremmo essere tutti femministi”, ha compreso bene questo meccanismo.
Con un tono semplice e aperto, l’autrice nigeriana racconta brevemente la propria esperienza di presa di coscienza riguardo il femminismo e evidenzia la necessità che tutti, maschi e femmine, comprendano quanto il femminismo sia necessario e utile ad entrambi i sessi.
I suoi esempi sono semplici, conditi da battute fresche e genuine in grado di indurre profonde riflessioni, come quella in cui dice di non comprendere perché la capacità di nutrirsi, secondo i rigidi ruoli di genere, sia compito domestico esclusivamente femminile; mettendo di fatto gli uomini nell’incapacità di soddisfare uno dei bisogni primari della vita, costringendoli ad affidare questo aspetto della sopravvivenza a un’altra persona.
Chimamanda non nega di essere arrabbiata, anzi, ammette di essere molto arrabbiata, non con gli uomini (etichetta spesso affibbiata alle femministe, da chi non ha mai approfondito la propria conoscenza del femminismo oltre il semplice sentito dire) ma per tutti, uomini e donne. La disparità di genere, per quanto apparentemente sembri costruire un mondo a perfetta misura di uomo, in realtà si rivela una catena anche per il più privilegiato dei maschi bianchi etero cis.
Il sessismo costringe la donna in uno stato di minorità, a farsi piccola, innocua e piacente per gli uomini, ma obbliga l’uomo a rinunciare alla parte più alta e nobile di sé: le emozioni. Soprattutto a quelle meno “mascoline”, quali tenerezza, sensibilità, empatia, riducendolo a una continua espressione di virilità cieca e testosteronica, costringendolo conseguentemente a vivere a metà, con un ego fragile e monco.
Nel suo manifesto, Chimamanda tocca tutti i pilastri che rendono il femminismo un movimento necessario a tutti, per il bene di tutti. Per questo si rivela una delle letture più interessanti, per non dire essenziali, per chiunque voglia iniziare a conoscere il movimento femminista.
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