Casa, per me, è quel rettangolo chiamato “palcoscenico”
Giovane, versatile e preparata, Maria Musella è la classica donna e attrice partenopea: in lei, c’è il fuoco del Vesuvio!
Nata a Barra, ha 26 anni e ha lasciato la facoltà di Giurisprudenza per seguire il suo sogno di recitare. E bene ha fatto, visto che non si è mai fermata tra palcoscenici e set (iniziando da piccolissima), tra cui anche un’esperienza con i detenuti del carcere di Poggioreale, dimostrando quanto il Teatro, così come l’arte in generale, sia un potente mezzo di rieducazione.
Ce ne parla meglio in questa intervista, condividendo i suoi pensieri e le sue esperienze professionali e personali.
Come ha vissuto il passaggio dalla sua esperienza teatrale precoce a quella più recente nel cinema e nella televisione?
Ho iniziato a calpestare le tavole del palcoscenico alla tenera età di 10 anni grazie ad uno spettacolo, “Kirukù e la strega Karabà”, condotto dalla compagnia NEA Europe-Africa, e da lì capii che “casa” era quel rettangolo chiamato “palcoscenico”. Alcuni mesi dopo, feci il mio primo provino (“il Clan dei Camorristi”) e altri provini per la tv. Mi innamoro ogni giorno del mio lavoro sul palco, sul grande e piccolo schermo. Il passaggio è stato traumatico, ma al tempo stesso mi ha fatto crescere e delineare meglio la mia immagine di artista a 360° nei vari settori della recitazione.
Qual è stata la sua più grande sfida artistica finora e come l’ha affrontata?
La più grande sfida artistica è stata andare in scena con Antigone di Sofocle, Anouilh e Brecht della regia di Pina Di Gennaro prodotto dal NUOVO IMAIE con il progetto “Transit”. Una grande responsabilità dar vita ad una tragedia greca rendendola contemporanea ed attuale senza snaturare e tradire la drammaturgia degli autori. Io fui scritturata per il coro degli antichi tebani ed andare in sync e con elementi di teatro-danza e di drammaturgia del corpo non è stato per niente facile oltre l’utilizzo della parola. Mi ha fatto capire che in questo lavoro non ti puoi “risparmiare”, ma utilizzare tutte le energie, dalla punta dei capelli fino alle dita delle unghie, se vuoi davvero “essere” quel personaggio, e non “fare” quel personaggio.
Può raccontarci un momento significativo durante le riprese del cortometraggio “Luci Fugaci” e come ha preparato il suo personaggio per quel ruolo?
“Luci Fugaci” è stato il primo corto da protagonista che mi ha messa a dura prova in sole 48h, dove dovevo imparare, entrare nel personaggio e girare sul set. Allo stesso tempo, mi ha resa orgogliosa del lavoro e la formazione che da 16 anni a questa parte sto costruendo. Il momento più significativo del cortometraggio è stata la scena della bruciatura alle mani, nella quale ho dovuto attingere dalla cassetta degli attrezzi, il cosiddetto background, con il metodo “Meisner”, ovvero il dover piangere per un dolore fisico come se lo avessi provato realmente. Mi ha aiutato moltissimo il reparto trucco di Marzia Ruggiero truccatrice prostetica che ha riprodotto con la professionalità e tecnica l’ustione della lampadina.
Ha esperienza nell’educazione teatrale con detenuti. Quali sono state le sfide e le gratificazioni di lavorare con loro e come pensa che il teatro possa influenzare positivamente le persone in situazioni difficili?
L’esperienza al carcere di Poggioreale, diretta dal Maestro e Direttore di Orchestra Carlo Morelli, con la produzione del Real Teatro San Carlo di Napoli, mi ha profondamente cambiata, rendendomi una persona migliore e ancora più empatica… insegnandomi a guardare non con gli occhi del giudizio, bensì con quelli della compassione ed accoglienza. Le sfide sono state tante all’interno del padiglione “Genova”, dei detenuti con i quali ho lavorato a partire dalla fase iniziale dei provini. È stata tosta far uscire fuori il loro talento canoro e recitativo, anche nel semplice racconto di aneddoti accaduti in cella, per fornire loro gli strumenti della verità. Ho lavorato con loro partendo dai training teatrali e con il “repetition exercise” di Meisner per instaurare la fiducia tra me e i miei colleghi educatori con i detenuti e tra loro stessi, soprattutto, per farli entrare nello spirito della compagnia teatrale. Le gratificazioni sono state tante: la memoria del testo in brevissimo tempo, l’analisi delle battute, i costumi di scena e la consapevolezza della serietà di questo mestiere. Si sono subito messi nella situazione dell’ascolto per apprendere tutto velocemente. Ci siamo emozionati: abbiamo pianto, riso e avuto il rispetto reciproco dei ruoli tra educatori ed allievi. Persone con passati difficili e cruenti si sono affidati per 6 mesi nelle mani di noi giovani professionisti del mondo dello spettacolo. È stato bellissimo aver portato a casa uno spettacolo come “Cavalleria Benedetta” (liberamente ispirato a “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni) scritto e diretto da Michele Ferrantino, realizzato con un cast misto di detenuti e 4 attrici in pochissimo tempo.
Hanno capito come spogliarsi della paura del giudizio degli spettatori, un pubblico amico dei nostri attori: famiglie, amici e persone a loro care. A mio modesto parere, il teatro (così come l’arte in generale) dovrebbe essere insegnato in tutti gli ambiti: nelle scuole, nelle carceri, nelle aziende, nelle fabbriche ecc perché insegna a mettersi nei panni degli altri e ad indossare le scarpe di un altro. Ci si allena alle “situazioni difficili’’, sviluppa l’empatia e può far guarire dai fenomeni come criminalità organizzata, povertà, violenza e altre piaghe sociali.
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