Davide Sgambaro, affronta dinamiche di resistenza in risposta ai paradossi generazionali
Davide Sgambaro è un artista poliedrico, dalla carriera artistica colma di mostre personali, che ha ricevuto il premio della Pollock-Krasner Foundation di New York.
Ha studiato presso l’Università IUAV di Venezia; oggi lavora e vive a Torino.
La sua arte è conosciuta per i temi che tratta, attraverso mezzi espressivi diversi: istallazioni, video, fotografia e performance.
Il tema del lavoro e del precariato sono tra quelli cardine, declinandoli in narrazioni ironiche e pungenti.
Iniziamo dalle sue opere: com’è strutturato il suo processo creativo? Esiste un filo conduttore tra queste?
Penso che l’unica cosa che esiste sia proprio un filo conduttore narrativo che unisce i miei lavori, interventi o scritti. Nasce tutto dall’esperienza personale, nato e cresciuto nella provincia veneta non ho potuto fare a meno di portarmi dietro un bagaglio di problematiche che cerco di affrontare in maniera inclusiva. Sono interessato ai paradossi socio-politici, al rapporto generazionale dell’individuo con la sfera del desiderio, alla normalizzazione della disperazione. Lo so, sono tutte cose molto delicate, ma non credo che l’arte in questo decennio debba avere ancora l’obiettivo di ricercare la bellezza quando attorno non ce n’è. Credo che questo ultimo concetto sia parecchio desueto e abbastanza assurdo se stiamo a vedere cosa succede giorno dopo giorno a livello mondiale. Quindi non mi sono mai preoccupato della famosa “riconoscibilità” a livello estetico. Credo ci sia da costruire discorsi prima di oggetti. Personalmente tento di creare punti di incontro ed esperienze, seppur sia un lavoro molto complicato.
Una domanda un po’ provocatoria: come reagisce alla considerazione che molti hanno riguardo l’arte contemporanea, ossia il fatto che molto spesso venga giudicata come “superficiale”, senza approfondirne il vero significato. Qual è il messaggio che vuole trasmettere? In che modo, dunque, la sua arte si amalgama al tessuto urbano?
Sinceramente non ho mai sentito dire che l’arte contemporanea sia superficiale. Piuttosto credo sia diventato superficiale l’attenzione e la preparazione di chi osserva, ma è inevitabile. L’esclusione della classe proletaria dalla partecipazione attiva alla critica dell’arte contemporanea, coincide con l’esclusione di un pubblico generico più vasto che, giustamente, non trova più accesso agli strumenti per confrontarsi e approcciarsi a questa generazione artistica.
C’è un problema a livello educativo scolastico, altresì un problema dei lavoratori e delle lavoratrici dell’arte contemporanea che puntano sempre a qualcosa che non riguarda il pubblico tendendo a escluderlo. Quindi di base l’arte è diventata prettamente un prodotto di lusso. È un problema principalmente politico che negli anni ha creato problematiche sociali in tutto il paese. Parlo degli anni della “tv di Berlusconi” e di come questa ha indottrinato le persone a odiare l’intellettuale, dando il via all’avvento del populismo, di cui oggi ne soffriamo le conseguenze. L’elitarismo nasce anche da questo, dal principio di San Matteo, base teorica dell’incremento vertiginoso della povertà: “A chi ha sarà dato e in abbondanza, a chi non ha sarà tolto anche quel che ha”.
Credo che i miei lavori affrontino esattamente queste tematiche, ma attraverso l’esperienza con l’opera, con l’immagine, riconoscendosi in essa. Tutto ciò è inevitabilmente tessuto urbano e per citare Pavese “Tutta la vita è politica” solo che ce lo siamo dimenticati e paradossalmente è questa dimenticanza che stiamo vivendo ora.
Sempre riguardo le sue opere, si nota una commistione delle arti. Dunque, secondo lei, la contaminazione di forme d’arte diverse può offrire ulteriori spunti di riflessione per la critica e l’analisi di opere note, nuovi mezzi attraverso cui promuoverle o amplificare nuovi messaggi da dirottare ai fruitori dell’arte?
Grazie per averlo notato. È molto complicato in Italia riuscire a fare dei progetti ibridi con altre forme d’arte. Non è ciò che ci si aspetta e solitamente chiedono spesso di riformulare i progetti. Personalmente, nella mia metodologia, tendo a fare più ricerca altrove che nella storia dell’arte stessa, permettendomi di avere molte più suggestioni e immagini automatiche. Gli stimoli maggiori derivano dal cinema e dalla poesia, segue poi la musica e la letteratura. La contaminazione è necessaria per costruire nuovi pensieri e proiettarsi verso un futuro possibile; altresì serve per una certa libertà di sperimentazione, senza dover scimmiottare la scia del momento. La cosa importante, però, è che la contaminazione non diventi appropriazione culturale o identitaria, il limite è sottile. Io ho sempre seguito una piccola regola deontologica: parlare solo di quello che ho personalmente esperito, motivo per cui la mia ricerca tratta di precarietà, di desiderio e disillusione.
Infine, riguardo al premio della Pollock Krasner Foundation che recentemente ha ottenuto a New York: che valore ha per lei questo premio, cosa significa per la sua arte e per la sua formazione da artista?
Pollock-Krasner Foundation aiuta artisti e artiste di tutto il mondo con un grant economico in base a diversi criteri. Prendono in considerazione il valore della proposta – e quindi il portfolio – e come si trattano determinate tematiche, mentre negli step successivi si passa alla valutazione dello stato socio-economico. Credo sia una buona pratica che, seppur escludendo chi non ha estremo bisogno di denaro, dà un aiuto per un tempo determinato a chi invece non può permettersi di fare solo questo lavoro. Quindi direi che sono stato molto felice di aver superato la prima fase “portfolio”, mentre ero abbastanza sicuro di passare quelle che riguardavano il mio stato economico e psico-fisico.
Sostengo da qualche tempo che nel nostro campo ci sia bisogno di una regolamentazione su base economica attraverso lo strumento dell’ISEE, soprattutto per quanto riguarda i bandi pubblici. Molti artisti che non possono permettersi di passare tempo sulla propria pratica e ricerca, ad un certo punto smettono rendendo così il cerchio del sistema dell’arte elitario. In questo modo si legittima un certo tipo di economia clientelare, che rende tutto molto ridicolo da un certo punto di vista, ma funzionale per chi crede ciecamente nelle dinamiche capitaliste.
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