A scuola da Alessandro Izzi

Editoriale

Aprile 11, 2024

“La mia passione per tutti questi linguaggi nasce dall’amore per la comunicazione in sé.”

Essere Maestro della parola significa padroneggiarla, plasmarla, utilizzarla con maestria, indipendentemente dal linguaggio. Un titolo che, pertanto, spetterebbe a pochi. Pochissimi. Uno di questi è di certo Alessandro Izzi, pluripremiato autore di teatro, narrativa, saggistica e poesia, con firme importanti anche nel cinema – si vedano soggetto e sceneggiatura di Arturo e il gabbiano (2020), cortometraggio di animazione in 3D, vincitore del premio Mejor animaciòn al Pet Film Festival Tepoztlán e del Premio Pevecorto del Festival Amicorti. Alessandro Izzi è un artista che la parola ce l’ha nel sangue, la lavora con fare da artigiano, e non è un caso l’intensa attività di didattica del cinema, dello spettacolo e dell’audiovisivo, profusa con passione sia attraverso i suoi interventi nelle scuole e nelle accademie, sia tramite Close-up – Storie della visione di Roma, di cui è condirettore.

Dalla narrativa, alla saggistica, toccando anche il teatro e il cinema. Dove nasce l’amore verso tutti questi linguaggi di comunicazione?

Credo che la mia passione per tutti questi linguaggi nasca dall’amore per la comunicazione in sé. In fondo, tanto la saggistica quanto il teatro, tanto la narrativa quanto la poesia, non sono altro che il frutto, a gradi e in forme diverse, di un viaggio nel chiuso della nostra interiorità e un tentativo di risalire da questo oscuro porto sepolto, portandoci dietro un barlume di conoscenza che possa in qualche modo aspirare all’universalità. In ognuna di queste forme, quindi, sento prima di tutto un anelito utopico al mio bisogno di capire, attraverso me stesso, l’altro, perché è comunque all’altro che mi rivolgo; altrimenti scrivere sarebbe un inutile guardarsi l’ombelico.

Quale di questi ha ritenuto più difficile e quale il più soddisfacente?

Il più difficile è forse la poesia, che impone un lavoro di scavo profondo e un continuo processo di revisione che porta spesso lontanissimo dal primo motivo di ispirazione. Su alcune liriche ho lavorato anche anni, tornandoci, di tanto in tanto, in cerca di un giro di verso migliore. Nessuna è mai stata il frutto di un’elaborazione immediata e tale non richiedere un ulteriore lavoro di lima. Segno, forse, che non ho ancora una reale padronanza del mezzo, e questa considerazione, unita al desiderio di superare sempre i miei limiti, mi spinge a continuare a scriverne, anche se è assai probabile che, se mai sarò ricordato negli anni a venire per qualcosa, non sarà per la poesia. La critica mi ha dato notevoli soddisfazioni nell’immediato, soprattutto laddove mi è capitato di essere ricontattato da un autore che ha voluto ringraziarmi per il tentativo sincero di penetrare la sua opera e capirla al meglio, (cito i casi che maggiormente mi hanno reso felice: Nicola Piovani e Simone Massi), ma forse le soddisfazioni più profonde me le ha date il teatro, perché toccare le emozioni di una platea, a volte anche di oltre settecento spettatori tutti insieme, lascia veramente un segno dentro.

Come nasce il progetto Close-up?

Si era nel lontano 1998. Io mi ero appena laureato in Storia del Cinema e il docente, Giovanni Spagnoletti, mi scrisse per coinvolgermi in questa avventura meravigliosa. Close-up era già una rivista accademica – se non ricordo male, trimestrale – ma si pensava di farne un’edizione mensile in Internet. All’epoca la connessione si faceva, da casa, escludendo il telefono e attaccando un modem che pigolava come un pulcino arrabbiato. In rete si restava il tempo necessario per fare qualche veloce ricerca e i social erano ancora al di là di ogni più rosea previsione. Close-up è stato un web magazine a suo modo pionieristico e sono stato felice di aver contribuito al suo lancio e di esserne poi diventato condirettore.

Ci racconti un episodio particolarmente significativo della sua ricca carriera artistica.

Inizio 2016: vengo contattato da Pino Di Buduo, direttore artistico del Teatro Potlach, che sta preparando Angyalok a város fölött (Angeli sulla città) un evento spettacolo nel centro di Budapest. Mi chiede una consulenza letteraria per la scelta dei brani da far interpretatore agli attori ungheresi. Tra le tante suggestioni mi mette davanti la foto di una delle location: una grande fontana su cui affaccia una parte di piazza che, da una certa angolazione, sembra la prua di una nave. “Voglio mettere nell’acqua un attore,” mi dice, “e tendere una fune come a dare l’impressione che stia trainando un vascello, ma cosa può dire durante l’azione?”. “Fitzcarraldo” penso, ma dalla mia bocca esce: “Il canto di Ulisse”. A tutt’oggi quel Dante a Budapest rimane memorabile e credo che questo piccolo aneddoto sia espressione del mio modo di concepire la scrittura soprattutto a teatro: una realtà in cui il lavoro è collettivo e ognuno aggiunge un tassello. Quello che ho inserito io probabilmente non è nemmeno il più importante, ma ha contributo a farmi sentire parte di qualcosa di bello.

Se potesse scegliere di condividere una cena con un personaggio iconico (ancora in vita o non) di una delle tante arti da lei toccate, chi sarebbe e perché?

Risponderei a questa domanda ogni giorno in maniera diversa. Oggi non mi spiacerebbe cenare con Krzysztof Kieślowski.

Si dice che un artista non termina la propria produzione finché ha qualcosa da raccontare. Cos’ha ancora da narrare Alessandro Izzi?

Sta uscendo il mio ultimo libro, Häxan, una silloge di racconti fantastici edita da Giovane Holden, ho da poco ultimato un nuovo spettacolo teatrale piuttosto sperimentale con cui non so ancora bene cosa fare e un paio di idee più piccole si stanno concretizzando. Vedremo…

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