L’opera, ancora inedita, diretta da Yari Gugliucci parte alla grande
Altro giro, altro successo. Danilo Napoli, autore e attore salernitano, si porta a casa l’ennesima soddisfazione professionale rientrando nella terna di finalisti del prestigioso Premio Mario Fratti, con il suo spettacolo (ancora inedito) Rumore Bianco.
Dal 2014 In Scena! ha introdotto il Premio Mario Fratti per gli autori italiani emergenti. Il drammaturgo vincitore riceve un dipinto appositamente creato da Victora Febrer, un’artista visiva che utilizza il vino per creare i suoi dipinti. L’opera vincitrice viene premiata con la traduzione in inglese e pubblicata nella Collezione Premio Mario Fratti. Dal 2022, le letture e le opere teatrali del Premio Mario Fratti a New York sono state dirette o co-dirette da una regista identificata come donna come parte dell’impegno di KIT di assumere più registe nelle loro produzioni e secondo l’interesse e il rispetto di Mario Fratti tributati ai personaggi femminili .
La cerimonia di premiazione avviene solitamente durante la serata di chiusura del Festival, presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York, 686 Park Ave.
Il suo testo teatrale ha già ottenuto un risultato pregevole prima ancora del suo debutto in scena. Se è vero che chi ben comincia è a metà dell’opera, cosa si aspetta da questo progetto?
È un progetto dal quale mi aspetto molto, e rientrare nella terna finalista del Premio Mario Fratti 2024 di New York non fa che rendere più eccitante l’attesa di ulteriori sviluppi. Abbiamo già attirato l’interesse di molti teatri, che lo vorrebbero nella loro stagione teatrale, e non possiamo che esserne fieri. Ora stiamo lavorando alla messinscena, e il lavoro che ne sta uscendo è lodevole, ma lo devo soprattutto a Yari Gugliucci, che sta curando la regia. Personalmente, fin alla prima parola scritta su questo progetto ho messo tutto me stesso e sto continuando a farlo. Posso dire con certezza che ne sentirete parlare!
Cosa l’ha spinta a voler trattare questo tema?
Beh, sono anch’io parte della comunità LGBTQ+, per cui il tema mi tocca da vicino pur non avendo mai, fortunatamente, subito omofobia (se non gli sguardi schifati e alcuni commenti a denti stretti delle bigotte signore o dei “nostalgici” che mi passano accanto quando passeggio mano nella mano con il mio ragazzo, ma rispetto a chi ha subito violenza è comunque poca roba).
Quello che mi muove, però, è l’ingiustizia. Nel mio teatro tutto parte dall’ingiustizia, da qualcosa che deve essere cambiato. In questo caso ho voluto raccontare una storia ispirata a una persona realmente esistita e che ne ha passate tante, fino agli ultimi giorni prima di morire, solo per il fatto di essere una persona transessuale. Da questo senso di ingiustizia è nato il monologo, e spero di portarlo in giro in Italia e nel mondo. Per questo, il riconoscimento del Premio Mario Fratti è un orgoglio.
Quali sono le difficoltà che ha riscontrato nello scrivere un’opera teatrale costituita interamente da un monologo?
La difficoltà nello scrivere un monologo sta nella naturale mancanza di “cose che succedono”, non esistendo altri personaggi, per cui bisogna creare una storia forte che possa attirare l’attenzione del pubblico da subito. E proprio perché il monologo è una storia che viene raccontata da un attore, bisogna tenere bene in mente se si vuole scrivere un monologo “tradizionale”, un soliloquio oppure un monologo di teatro di narrazione, nel quale l’attore non incarna un personaggio, ma un “raccontastorie”. Nel caso di questo monologo, più “tradizionale” nel genere, il personaggio c’è ed è il punto focale dell’opera, per cui ho dovuto caratterizzare bene il personaggio che racconta e allo stesso tempo ho dovuto creare una storia forte e coinvolgente.
Quali saranno le sfide, invece, nelle vesti di attore?
Beh, tenere circa sessanta minuti di monologo non è mai una passeggiata. È un tipo di lavoro che amo particolarmente perché sento di diventare tutt’uno con la scena e con il personaggio, ma bisogna prepararsi bene per non rischiare di avere cali di ritmo o incongruenze del personaggio. Con Yari stiamo lavorando duramente sulla costruzione scenica.
– Come ritiene che il teatro possa contribuire alla sensibilizzazione al delicato tema dell’omotransfobia?
Come dico sempre, non credo che oggi il teatro abbia una funzione educatrice, ma che possa svolgere un ruolo importante nella sensibilizzazione delle masse, e questo è sempre avvenuto nel corso dei secoli. Questa affermazione ci permette di rendere il teatro e l’arte in genere liberi di esprimersi. Affibbiare all’arte una funzione educatrice significa metterle dei paletti che non fanno bene alla creatività. Invece io sostengo un’arte libera, pur facendo spesso teatro sociale. Per cui sì, credo che il teatro sia fondamentale per la sensibilizzazione di temi così delicati e attuali. Ma io non voglio far cambiare idea alle persone, non è questo il compito del teatro. Io voglio instillare dei dubbi, delle domande. Il teatro è empatia, è mettersi nei panni dell’altro. Nel caso del mio spettacolo, lo spettatore si mette nei panni di un killer di donne transessuali che è stato vittima di omofobia da parte dei genitori, per cui si chiede: dov’è il bene? Dov’è il male? Il mio sogno è che un genitore, un giorno, davanti al coming out del figlio, possa sentirsi influenzato dal mio spettacolo al punto da vincere le remore che magari aveva sull’argomento e accettarlo con l’amore che ogni figlio merita. Quella sarà una grande vittoria, più grande di un premio Ubu.
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