Regista, fotografa e attivista: il percorso di Marina Ingenito, tra cinema e solidarietà
Marina Ingenito, nata a Salerno, classe ‘94 è una regista cinematografica, laureata al DAMS di Bologna nel 2017 con una tesi in scrittura per il cinema. Trasferitasi a Milano nel 2022, termina gli studi alla Scuola Civica di Cinema Luchino Visconti, con una tesi sulla rappresentazione di se stessi nel cinema documentario di Agnes Varda, e un film documentario sulla violenza di genere dal titolo Decostructo. Film che è stato premiato con il premio Aurelio Laino come migliore documentario al Festival “Salerno in Cortocircuito” nel 2023. Al momento è impegnata nella promozione del suo documentario per contribuire attivamente al contrasto della violenza di genere. La sua passione per l’audiovisivo nasce dalla fotografia, ha esposto nel 2014 a Salerno i suoi scatti in cui raccontava il suo primo viaggio in Etiopia. Successivamente, per due anni consecutivi, ha realizzato un calendario solidale in cui raccoglieva foto e frasi del suo diario di viaggio. Tutto il ricavato è stato interamente devoluto per contribuire alla costruzione di un ospedale nella città di Robe in Etiopia.
Sensibile a tematiche sociali, trova nell’arte la sua dimensione, disegna, scrive, fotografa e filma, esprimendo attraverso vari linguaggi creativi la sua quotidianità. L’obiettivo da sempre è quello di raccontare storie.
Cosa l’ha ispirata ad affrontare il tema della violenza di genere nel tuo documentario?
Sicuramente mi ha spinto in questa direzione un vissuto personale, che però non era ancora pronto ad essere esposto, ma grazie al quale mi sono interessata e avvicinata al femminismo, a cui devo tanto. Credo sia importante conoscere la nostra storia, capire da dove veniamo, cosa abbiamo vissuto, per sapere dove andare e indicare la strada del rispetto alle nuove generazioni. La speranza nel cambiamento e il senso di sorellanza è il sicuramente ciò che mi ha ispirata.
Qual è stato il processo di ricerca e preparazione per la realizzazione del suo documentario?
Decostructo è il mio film di diploma, ho avuto il privilegio di poter scegliere il tema da affrontare, ho percepito di avere una possibilità e di voler sfruttare lo spazio che mi era stato dato. A quel punto non ho avuto dubbi di voler parlare di violenza di genere.
Essendo un film di diploma avevo la garanzia di una rete di persone e di uno schema nel quale tutto si sarebbe svolto. La fase di ricerca è stata la prima in cui ho iniziato a collaborare con altre persone, tre sceneggiatori, nello specifico: Francesca Perrotta, Federica Monterisi e Matteo Banni. Abbiamo iniziato semplicemente a parlare tra noi, ognuno portava il suo vissuto o il suo pensiero ed è stato fondamentale parlarne in modo così libero senza porci obbiettivi, ci consigliavamo film, articoli, libri, mostre e qualsiasi cosa pensavamo potesse aiutarci ad approfondire l’argomento.
Poi abbiamo capito che volevamo assolutamente che questo fosse uno spazio che dava voce alle donne e abbiamo contattato centri antiviolenza, attiviste, registe, scrittrici, chiunque fosse raggiungibile e che si fosse esposta sull’argomento. Ovviamente anche e soprattutto le survivors.
Abbiamo attraversato insieme mille modi di cercare ovunque la stessa cosa e ci ha sempre guidato un solo mantra: ascoltare le donne.
Come ha selezionato le storie e i partecipanti?
Abbiamo veramente cercato ovunque, scritto a miriadi di persone e poi dopo momenti di sconforto in cui ci sembrava che non arrivassimo mai ad un dunque c’è stata una svolta. Sicuramente grazie alla Scuola Civica di Cinema Luchino Visconti che è sempre stato il nostro biglietto da visita.
Abbiamo avuto la fortuna di incontrare delle persone che da subito abbiamo sentito epidermicamente affini al nostro racconto e alle sue modalità, tra queste Claudia di Palma e Daniela Seregni del centro antiviolnza SvS DaD onlus (Soccorso Violenza Sessuale Donna Aiuta Donna) e Diana De Marchi (Presidente commissione pari opportunità e diritti civili del Comune di Milano) senza le quali questo documentario non sarebbe stato ciò che è.
Si dice che un documentario si scrive tre volte, quando si scrive, quando si filma e quando si monta, e sicuramente è stata ardua la fase di montaggio, in cui è stato necessario selezionare accuratamente pochi minuti tra le tante ore di girato è stato un lavoro pazienze e faticoso a cura di Giulia Serra.
Le nostre scelte sono state guidate da come crediamo sia giusto parlare dell’argomento: non spettacolarizzare il dolore, non fare assolutamente pornografia del dolore e dalla voglia di raccontare tutti i tipi di violenza di genere, soprattutto quelli che si annidano nelle relazioni personali e che spesso passano inosservati.
Quali sfide ha affrontato durante la produzione del documentario e come le ha superate?
La produzione di un documentario è una delle cose più difficili da fare e che nessuno ti insegna, semplicemente si improvvisa e ci si scopre persuasivi e cortesi. Io avevo un unico obiettivo ed era realizzare questo lavoro. Non c’era nulla che tenesse, non avrei mollato. Farlo era diventato troppo importante, per me e per ciò che significava. E di problemi ne abbiamo avuti mille e mille ne abbiamo risolti. A costo di restare a pensare come fare fino a notte fonda.
Di scuro avere al mio canto in questa avventura Clara Pompilli come direttrice della fotografia è stata una fortuna, lei ci ha creduto da subito e ha reso lievi tanti ostacoli che abbiamo incontrato. A guardarsi indietro sembra davvero incredibile aver superato tutto, eppure è stato naturale.
Qual è stato l’aspetto più significativo o toccante del tuo lavoro con le vittime di violenza di genere?
Le vittime di violenza di genere non sono esseri mitologici difficili da scovare, purtroppo sono tutte le donne attorno a noi. Le forme di violenza sono diverse tra loro ma infinite. Rendermi conto di questo è stato significativo per la rotta che ha preso il nostro lavoro. Per me era importante condividere con le donne lo spazio che avevo a disposizione, ho voluto che la mia voce fosse accompagnata da quella di tante altre donne ed è stato toccante ripetere tante volte e sentirlo davvero “non sei sola”. Sono molto grata a tutte le persone che mi hanno dato fiducia, che si sono esposte, che hanno donato il loro tempo e la loro storia professionale o personale per questo film. Per me è stato un onore intervistare quindici donne e ognuna a suo modo mi ha dato tanto e ha contribuito in modo fondamentale a questo lavoro che non è solo mio ma di tuttǝ.
Come crede che il cinema e i documentari possano contribuire alla sensibilizzazione e al cambiamento in relazione alla violenza di genere?
Credo che tra le tante forme in cui è possibile manifestare un dissenso alla violenza di genere ci sia indubbiamente l’audiovisivo. È una forma d’arte (e non) ad alto impatto sulle persone, ha una potenza inspiegabile. Forse perché ci permette di vederci da fuori. E spesso capita che vedendoci da fuori siamo degni figli del patriarcato, eppure assolti.
Il cinema ha bisogno di registe donne non per educare gli uomini o per combattere battaglie di diritti e parità, non è una nostra responsabilità, il cinema ha bisogno di mille sfumature di racconto, di animi vari che possano avere spazio per raccontarsi con la propria voce. Una voce di amore e rabbia per il rispetto che non gli è stato dato.
Credo profondamente nel cambiamento che ognuno di noi possa incarnare e rendere manifesto nelle nostre vite, in tutto ciò che facciamo. Mi auguro di avere ancora spazio di espressione e se non sarà così me lo prenderò, intanto vi ringrazio per questo!
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