Da Saviano a Tornatore, passando per Coppola e Garrone. Il fratello di Giancarlo dice la sua.
Giancarlo Siani era un giornalista italiano, nato il 5 settembre 1959 a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, e ucciso il 23 settembre 1985 dalla Camorra. Lavorava per il quotidiano “Il Mattino” ed era conosciuto per il suo impegno nel denunciare la criminalità organizzata e le attività illecite della Camorra. La sua morte è stata un atto di intimidazione contro il giornalismo investigativo e la lotta alla criminalità organizzata. Il suo sacrificio ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di combattere la criminalità organizzata e la corruzione in Italia e la sua memoria è stata onorata come simbolo del coraggio dei giornalisti che si battono per la verità e la giustizia.
Dalla sua morte, è il fratello Paolo Siani, pediatra e politico a portare avanti il suo ricordo e le sue idee.
Partiamo da un suo recente intervento su La Repubblica di Napoli. Parla di un tema sempre attuale e difficile da trattare, ossia quello della mafia e della sua visibilità in Tv, sui social o attraverso ogni mezzo di diffusione. Cosa ne pensa a riguardo?
La domanda che bisogna porsi è: è giusto raccontare le nefaste vicende di chi si è macchiato di crimini orrendi? È possibile che raccontando queste storie si determini una sorta di spirito di emulazione?
La risposta è: è possibile, ma è anche vero che grazie per esempio al capolavoro di Francis Ford Coppola, il Padrino, uscito mezzo secolo fa, tutto il mondo ha conosciuto le atrocità della mafia. E questo può servire a prenderne le distanze e a combatterla.
Quello che manca è il racconto puntuale anche delle storie delle vittime innocenti della mafia, storie straordinarie di donne e uomini “normali” che hanno pagato con la vita il loro impegno per la legalità. Raccontare le mafie non dalla parte dei carnefici bensì da quella delle vittime sarebbe un gran successo per la vita civile del nostro paese e servirebbe anche ad attenuare il dolore senza fine dei familiari delle vittime.
Parliamo di Gomorra, che prima con il libro scritto da Roberto Saviano e poi con la serie Tv trasmessa da Sky ha ottenuto uno straordinario successo di pubblico. Per lei raccontare cosa succede nella criminalità organizzata serve? Oppure crea, soprattutto in alcune zone, la voglia di emulare?
Gomorra ha avuto il merito di svelare le faide della camorra e l’atrocità di quelle azioni, con tante vittime innocenti.
È innegabile che il libro di Roberto Saviano venduto in oltre 2.250.000 copie in Italia e 10 milioni nel mondo e tradotto in 52 lingue, ha fatto conoscere al mondo intero un fenomeno all’epoca poco conosciuto ma di una gravità enorme.
L’intento dello scrittore e di Matteo Garrone regista del film e poi con la serie TV, non era certo quello di fare “pubblicità” alle mafie, ma piuttosto quello di raccontare il male e le atrocità, che come ha recentemente dichiarato anche il maestro Tornatore a proposito della sua opera “Il camorrista”, rappresenta un atto di denuncia, un’opportunità di maggiore conoscenza del fenomeno per rendere più forte la lotta alla mafia. Bisogna guardare a Gomorra come un’operazione che è servita a svelare il male e a prenderne le distanze. È innegabile, però, che esiste il rischio che qualcuno guardando il film venga preso dalla voglia di emulare le azioni raccontate sullo schermo.
Ho sempre pensato che se al termine delle “fiction sulle mafie” venisse proiettato il lungo elenco delle vittime fatto di giovani, anziani, donne e bambini, e venisse detto che quei boss sono in galera e all’ergastolo, o sono stati uccisi dai clan rivali, questo renderebbe la storia più vicina alla realtà e soprattutto allontaneremo dalla mente dei ragazzi quella sorta di “brand mafioso” che fa sembrare forti, immortali e potenti degli orribili e spietati assassini. Perché come ha dimostrato una ricerca condotta a Napoli dagli studenti anticamorra e da Il mattino i ragazzi conoscono molto di più i nomi e le storie dei mafiosi che quelli delle vittime.
Come crede che lo stato possa intervenire per combattere lacriminalità organizzata?
L’azione repressiva ormai funziona, i boss sono in carcere e prima o poi le forze dell’ordine li arrestano tutti, quello che manca o che è insufficiente è l’azione preventiva.
Colpisce leggere i nomi delle famiglie mafiose, sono sempre gli stessi, la mafia sembra quasi una malattia genetica che passa da padre in figlio.
E invece nessun bambino nasce mafioso, ma se vive in una famiglia mafiosa o in un quartiere ad alta densità mafiosa è molto facile che mafioso ci diventi, a meno che lo Stato non gli dia una possibilità di salvezza. Ogni mamma se intravede per il suo bambino un’alternativa, una strada che lo porta verso la legalità, la cultura e lontano dalla camorra, il figlio lo salva perché sa bene che se non fa nulla quel bambino diventerà un boss come il padre, il nonno, lo zio e prima o poi verrà arrestato o sarà ucciso. Saviano nel suo libro racconta proprio che la camorra adesca nuove reclute non ancora adolescenti, facendogli credere che la loro sia l’unica scelta di vita possibile, di bambini boss convinti che l’unico modo di morire come un uomo vero sia quello di morire ammazzati.
Prendiamo “Mare fuori”, straordinaria e acclamata fiction, che ha dato uno spaccato molto vicino alla realtà del mondo della criminalità minorile in Campania. La cosa che emerge in modo emblematico e al tempo stesso drammatico è la mancanza della scuola nella vita di quei ragazzi, la mancanza di un insegnante che abbia riconosciuto i talenti che ognuno di quei ragazzi ha, ma che vanno scoperti e coltivati. A volte lo fanno gli educatori in carcere, come avviene nella fiction, ma è purtroppo troppo tardi per cambiare le loro traiettorie di vita.
È necessario far capire a chi governa che per sottrarre quei ragazzi alle mafie bisogna investire su di loro prima che scelgano la strada della malavita.
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