Le anime belle continuano a vivere nel ricordo di chi resta
La storia è costellata di figure che hanno contribuito allo sviluppo socio-culturale della società divenendo parte della memoria collettiva.
Il 10 Agosto 2023 Michela Murgia si è aggiunta a questo patrimonio, accompagnata oltre la soglia della vita da un cancro terminale.
Non parliamo però di resa alla malattia. A Michela la narrazione pseudo-bellica delle malattie mortali non è mai piaciuta e lo ha chiarito in modo molto esplicito nel discorso in cui ha annunciato la propria condizione. Nell’intervista dichiarava di voler dedicare i mesi che le restavano alla propria famiglia (una famiglia queer, fuori dagli schemi tradizionali, basata su affetto e sostegno reciproco) e ai temi a lei cari. Ed è ciò che ha fatto, sorridendo fino all’ultimo, nonostante la debilitazione fisica.
Fino alla fine ha elevato la propria voce in difesa dei fragili e degli oppressi, prendendo posizione netta contro ipocrisia sociale e politica, ricordando a tutti come applicare un concetto fondamentale troppo spesso lasciato alla mera ideologia: tutti hanno diritti inalienabili.
Dai propri social, Michela si è scagliata in difesa dei migranti di Ventimiglia, il cui sindaco, dopo aver chiuso il centro di accoglienza costringendoli a una vita in strada, ha negato loro l’accesso al cimitero e conseguentemente all’acqua delle fontanelle presenti nella struttura. Un atto disumano che inoltre contribuiva alla diffusione di infezioni e malattie, aggravando ulteriormente la già precaria condizione dei migranti.
I giornali hanno riportato la notizia con titoli a effetto su come la Murgia avesse “attaccato” il sindaco, riducendo una problematica sociale che dovrebbe riguardare tutti a un banale battibecco tra una scrittrice e un politico.
Anche l’opinione pubblica si è spaccata. Su Instagram i commenti sotto i post di Michela si dividevano tra chi si aggregava alla sua protesta e chi invece poneva l’attenzione sul degrado portato in città dalla presenza di individui vaganti.
La narrativa giornalistica e la frattura netta nel pubblico sono la prova tangibile di come talvolta, per quanto si possa spiegare nel dettaglio quanto sia disumano negare un diritto fondamentale alla vita, alcune persone restano comunque focalizzate su quelle che sono le loro priorità (il decoro cittadino) bypassando direttamente i principi di rispetto e dignità che sono alla base di una società civile.
Questo è solo l’ultimo di una serie lunghissima di scontri ideologici tra Michela e il mondo. Perché Michela, davanti a qualcosa di storto, non ha mai finto che non le riguardasse, ma si è sempre fatta portavoce di quella che reputava essere la parte lesa nelle ingiustizie. E non le importava che la gente potesse non capire, né di essere criticata e giudicata, lei non si è mai tirata indietro.
Si è trattato di una scelta consapevole.
Prendendo in prestito le parole di Roberto Saviano nell’intervista in cui la ricordava come amica, prima che come attivista: la sua è stata un’attività per non far sentire soli.
Decisa e inarrendevole, ha subito ostracismi ed è stata ricoperta di infamia dalle più grandi testate giornalistiche, infastidite dalla sua voce forte e scomoda. Quelle stesse testate che, alla notizia del suo cancro, hanno cercato di calzarle addosso la veste da martire, che lei ha strappato con tutte le sue forze, dimostrando per l’ennesima volta che niente e nessuno, forse neanche la morte stessa, sarebbe mai riuscita a imbrigliarla in uno stereotipo.
Questa sua inarrendevolezza non le ha reso la vita facile, le ha causato molti problemi e certamente tanto dolore, ma ha generato anche qualcos’altro: ha trascinato le masse, aprendo loro gli occhi e spingendole a interrogarsi su cosa potessero fare per contribuire, per sostenere.
Questo bisogno viscerale di puntare il riflettore su chi non ha una voce per difendersi, o pur urlando viene considerato così niente da non essere neanche ascoltato, ha caratterizzato l’intera produzione artistica e culturale di Michela.
Negli anni ha scritto libri di narrativa, di saggistica, partecipato a programmi TV e radiofonici, sfruttando anche internet e il nascente mondo dei podcast, diventando di fatto una divulgatrice transmediale, perché il suo scopo non era semplicemente scrivere, ma diffondere un pensiero di parità dei diritti, della valorizzazione delle diversità, della necessità in una società civile quale definiamo la nostra, di fornire a tutti gli strumenti necessari per esprimere al massimo il proprio potenziale.
Nella sua intensa attività, Michela ha conquistato una spiccata autorevolezza con la sua penna arguta, dal tono pungente ma sempre estremamente acuto, su tutta una serie di temi sociali nei quali ha spaziato a trecentosessanta gradi.
Il pubblico la apprezza proprio per quel modo di scrivere così pungolante, che non edulcora, ma piuttosto le sbatte in faccia la realtà, mostrando i problemi per quello che sono senza fronzoli inutili.
Particolarmente conosciuta per le sue produzioni sul tema femminista, Michela, cattolica praticante e credente convinta, ha dimostrato che religione e attivismo possono camminare affiancati e che non si escludono automaticamente a vicenda, se si mantiene una mente aperta e vigile.
Grande esempio è Ave Mary, così la chiesa creò la donna, un saggio brillante che evidenzia quanto il comparto religioso abbia condizionato e condizioni tutt’ora la percezione della donna nella società contemporanea.
I suoi contenuti di divulgazione antisessista sono particolarmente apprezzati, o particolarmente odiati, per una caratteristica peculiare: la sua spada non si solleva ciecamente in difesa di una donna fragile, diafana, quasi incorporea che ha bisogno di protezione, piuttosto si muove con la maestria di una danza acrobatica attraverso le sbarre degli stereotipi di genere, decostruendoli con precisione chirurgica un pezzo alla volta e mostra come tenere le donne nella trappola del “sesso debole” diventi a sua volta una trappola per quello che viene definito il “sesso forte” generando una società carceraria e limitante che non lascia scampo a nessuno.
Se un uomo vuole intraprendere un percorso di liberazione dallo stereotipo, deve leggere Michela Murgia. Ma prima ancora deve ascoltarla parlare. Se la sua penna risulta affilata come un rasoio, la sua voce racconta un tono morbido, accogliente, dotato di una pacatezza quasi meditativa, che cambia la chiave di lettura dei suoi scritti e, dal sentirsi presi a schiaffi di cruda realtà, si comprende che Michela tende la mano e accompagna il lettore attraverso questo maestoso, terribile giardino degli orrori in cui talvolta l’essere umano sa trasformare questo splendido mondo.
La sua azione non si è fermata solo alla parità di genere: si è impegnata per valorizzare la sua terra natìa, la Sardegna, e si è battuta riguardo temi politici come il problema delle politiche razziste e segregazioniste per “risolvere” la questione dei migranti.
Forse Michela non lo sa, ma tutta la sua produzione ha cambiato le vite di molte persone, e continuerà a farlo perché, anche se lei non c’è più, la sua voce continua ad echeggiare attraverso i suoi scritti, le interviste a chi la conosceva, le trasmissioni in cui è stata ospite, ma soprattutto nel suo splendido podcast Morgana, che si dipana attraverso ben quarantotto episodi analizzando le vite di altrettante donne che la società ha etichettato come reazionarie, pericolose, “streghe”.
Attualmente l’ultimo episodio di Morgana (probabilmente l’ultimo definitivamente) si chiude raccontando della più grande e portentosa strega del nostro tempo: proprio Michela Murgia.
Un grande tributo a una grande donna per la quale non sarebbero sufficienti fiumi di inchiostro, come non è sufficiente questo articolo, che si limita ad elogiare la memoria di una grande penna e la preziosa eredità lasciata ai posteri un’eredità preziosa per contribuire in prima persona a costruire una società migliore e un futuro migliore.
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